Durante queste ultime settimane, ci siamo ritrovati ad affrontare incertezze, dubbi e paure. Contemporaneamente, è come se il virus ci avesse aperto gli occhi dopo un lungo sonno. Molto di ciò che davamo ormai per scontato, ha rivelato i suoi problemi e le sue fragilità. Molto di ciò che consideravamo lontano, si è rivelato essere incredibilmente vicino. Oltre alla sfera psicologica, questo si è verificato anche per il nostro modo di alimentarci: scaffali dei supermercati vuoti, scarsità di lavoratori stagionali, surplus e carenze locali generate dai cambi repentini di domanda, e file sempre più lunghe per i servizi di assistenza alimentare, ci hanno obbligato a guardare in faccia la realtà. Come siamo arrivati a questo punto? Cosa possiamo fare per cambiare le cose?
Abbiamo creato un sistema che predilige la quantità di calorie rispetto alla loro qualità. Un sistema dove cibi altamente trattati che hanno fatto il giro del mondo prima di arrivare sullo scaffale di un supermercato costano meno della verdura fresca coltivata dal contadino locale. Tutto ciò ha creato un’enorme pressione sulle risorse naturali e potrebbe compromettere il nostro stesso futuro. L’abuso di fertilizzanti, pesticidi e antibiotici al fine di aumentare la produttività dei campi e degli animali sta distruggendo gli ecosistemi, cambiando il clima e compromettendo la nostra stessa salute. I cicli naturali di carbonio, azoto e fosforo, sono stati alterati ad una velocità senza precedenti, ben oltre i limiti di sicurezza entro i quali sappiamo che l’uomo possa prosperare. La nostra fame di carne e olio di palma sta radendo al suolo gli ecosistemi più ricchi del pianeta, le foreste tropicali. I fertilizzanti e gli scarti animali finiscono in fiumi, laghi e mari, uccidendone la vita. Le perdite di carbonio dal suolo, i gas prodotti dai ruminanti e le emissioni dall’uso e la produzione dei fertilizzanti sono tra le prime cause del riscaldamento globale. A sua volta, il cambiamento climatico aumenta la fame nel mondo: ondate di calore estremo, siccità, inondazioni e tempeste danneggiano i raccolti e fanno aumentare i prezzi degli alimenti, rendendoli inaccessibili a un numero sempre maggiore di persone. Mentre montagne di cibo vengono sprecate ogni anno (circa 1.3 miliardi di tonnellate, ovvero un terzo di tutto il cibo prodotto, non viene consumato), e il numero di persone obese continua ad aumentare, più del 10% della popolazione mondiale soffre di fame. A causa dei cambiamenti climatici, il numero di persone che non ha abbastanza da mangiare è in crescita dal 2015. Il covid-19 sta ulteriormente peggiorando la situazione: a causa della crisi economica, le persone che soffrono di fame potrebbero raddoppiare entro la fine dell’anno. Una nuova indagine ha trovato che un bambino su cinque negli Stati Uniti non ha cibo a sufficienza: si stima che la situazione attuale sia tre volte peggiore che durante la grande recessione. Inoltre, la combinazione di confini chiusi e lavoratori ammalati, fa si che meno cibo arrivi sulle nostre tavole e più cibo venga buttato via. Oltre a esporre il legame tra la diffusione di malattie zoonotiche e il nostro rapporto malsano con la biosfera, il covid-19 ha esposto la fragilità della nostra filiera alimentare. Il nostro approvvigionamento alimentare si basa su filiere globali in mano a pochissime aziende, che fanno affidamento su monocolture di un numero limitatissimo di alimenti. Un’interruzione improvvisa della produzione, come successo con questo virus o come potrebbe succedere in futuro con un nuovo insetto infestante, può far crollare l’intero castello di carta.
Il virus ci sta aprendo gli occhi su qualcosa che in fondo sapevamo già: il nostro sistema agroalimentare è guasto e dobbiamo ripensarlo. C’è bisogno di un sistema resiliente, che resista agli shock e che non peggiori l’attuale crisi ecologica. Le soluzioni ci sono, dobbiamo solo implementarle. La filiera va diversificata, aumentando la quota occupata dagli agricoltori locali indipendenti. Si permetterebbe così agli agricoltori di prosperare e a noi di avere un minimo di indipendenza nel caso di chiusura delle frontiere. Chi lavora nei campi deve essere tutelato. Politiche che includono il reale costo ambientale e sociale della produzione di cibo nel prezzo finale dei prodotti devono essere la priorità per salvaguardare i lavoratori e ridurre la pressione sugli ecosistemi. Dobbiamo mangiare meno e mangiare meglio. Le scelte alimentari che facciamo possono influenzare il mercato e ridurre drasticamente il nostro impatto ambientale. Smettere di mangiare carne da allevamenti intensivi potrebbe inoltre prevenire la diffusione di nuove malattie e di batteri resistenti agli antibiotici.
Ci siamo abituati a questo sistema agroalimentare, dando per scontata la possibilità di trovare qualsiasi cibo, in qualunque stagione, in qualunque posto. La comodità ha tolto spazio alle domande. Ci siamo mai fermati per davvero a chiederci quali siano i costi sociali e ambientali delle nostre scelte alimentari? Ci siamo mai resi conto di quanto siamo interconnessi gli uni con gli altri? Di quanto le nostre scelte personali possano avere conseguenze più ampie? Questo è il momento giusto per iniziare a considerare come ciò che scegliamo di mangiare ogni giorno possa fare la differenza. È il momento per comprendere l’urgenza di quello che non solo gli scienziati, ma anche gli agricoltori, i lavoratori migranti, le zone oceaniche considerate “morte” perché troppo inquinate, gli ettari di terra rimasta spoglia in seguito alla deforestazione, e gli animali mandati al macello dopo vite brevi e dolorose, stanno gridando da anni: non possiamo sopravvivere così.
Non possiamo “tornare alla normalità’”. Ora e’ il momento di vedere noi stessi come parte di un sistema. Un luogo dove non ci sono le parole “noi” e “loro”, perché tutti siamo egualmente importanti nell’assumerci la responsabilità di generare soluzioni che mettano al centro il bene comune e non il profitto. C’e’ bisogno di nuovi valori e di nuove azioni. Basta con le storie raccontate, ora è il momento per tutti noi di fare la storia. Che sia il ristoratore che si è preso la briga di preparare pasti caldi per chi ne aveva bisogno, perché il cibo salutare dovrebbe essere un diritto per tutti. Che sia il volontario che ha corso il rischio di portare la spesa a un anziano, o il piccolo produttore che si è inventato un nuovo modo per raggiungere i clienti, aiutandoli a riscoprire il gusto e la bellezza di ciò che abbiamo vicino. Che sia il lavoratore stagionale che con la sua assenza chiede di veder riconosciuto il suo enorme valore. Questi gesti di rispetto, vicinanza e dignità possono vivere ben oltre questa crisi: possono essere le fondamenta per costruire nuovi modelli, basate su un amore genuino e creativo, che diano la possibilità di trovare soluzioni per un modo di alimentarci sostenibile e per l’umanità stessa.
Quello che stiamo vivendo è fonte di grande sofferenza, ma sta anche mostrando quanto di ciò che credevamo impossibile in fondo non lo sia: non lasciamoci scappare questa occasione.